E’ una soluzione che in questi mesi si è rivelata efficace ma ancora poco conosciuta nel nostro Paese. Si chiama outplacement, è lo strumento migliore al momento per aiutare chi abbia perso il lavoro a trovarne un altro in fretta.
All’atto pratico si possono rivolgere alle agenzie specializzate tutti, dagli operai ai dirigenti, fino ai lavoratori generici, perché le percentuali di chi viene ricollocato sfiora medie del 90%, come ha spiegato all’ADN Kronos Cetti Galante, ad di Intoo, ossia la società di GI Group specializzata nel settore: “Ricollochiamo chiunque voglia farlo in un tempo medio di 6 mesi, proprio grazie al supporto personalizzato ‘uno a uno’, fornito da un consulente che segue la persona sin dal primo momento”.
Chiaramente il richiedente dovrà anche adeguarsi alla condizioni del mercato che sono profondamente cambiate. Ma è comunque un modo diretto per mettere in contatto domanda e offerta negli specifici settori: in concreto per il 25-30% dei ricollocati si tratta di un reingresso nel con un contratto a tempo indeterminato mentre per il resto sono contratti a tempo determinato o in alternativa soprattutto per gli Over 50 una collaborazione a partite Iva.
Il candidato dovrà mostrare una certa flessibilità, soprattutto nel caso non si trovi subito una sua sistemazione efficace. Il vantaggio sta nel fatto che questo tipo di servizio è pagato dalle aziende e non dal candidato, visto che le prime si tengono sempre un certo margine di ricerca del personale che non passa da annunci pubblici ma viene gestito attraverso le agenzie di collocamento.
I dati parlano chiaro: negli ultimi tre anni le società che si occupano di outplacement hanno seguito oltre 23mila persone, come a dire un numero ancora limitato rispetto a quelli che effettivamente abbiano perso il lavoro. Ecco perché, come chiosa Cetti Galante, ci vorrebbero maggiori incentivi da parte del governo: “Gli altri Paesi europei, soprattutto quelli nordici e del centro Europa, dedicano alle politiche su perdita e rioccupazione il 3% del Pil, di cui la metà alle politiche passive per l’assistenza e l’altro 1,5% alle politiche attive, cioè outplacement e strumenti similari, mentre in Italia è solo lo 0,3%”.
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