Lo ha ribadito ancora domenica sera Mario Monti a ‘Che tempo che fa’. Ora è tempo di liberalizzazioni e soprattutto di una riforma certa del mondo del lavoro, capace di rilanciare l’occupazione soprattutto a livello giovanile non solo in quelle zone ciclicamente depresse come il Sud Italia.
Il primo passo, come da anticipazioni delle passate settimane mai formalmente smentite dal neo ministro Fornero, sarà quello di rivedere le forme contrattuali (ben 46 diverse in Italia) puntando ad arrivare al cosiddetto ‘contratto unico’. Il tutto però al momento si scontra con le posizioni dei sindacati, a cominciare dalla Cgil, che temono di veder toccato l’articolo 18, soprattutto per quello che attiene ai licenziamenti facili.
Vediamo quindi cosa potrebbe cambiare per i lavoratori italiani, a cominciare dai licenziamenti. E’ prevalente al momento la tesi che sposa la proposta lanciata dall’economista Pietro Ichino, ossia di una maggiore flessibilità da parte del lavoratore che verrebbe però compensata dall’obbligo per l’azienda o comunque il datore di lavoro di reintegro in caso di miglioramento del bilancio e con ammortizzatori sociali più o meno estesi nel tempo. Nella vecchia proposta, formulata dell’ex ministro Damiano, era previsto invece un periodo di prova di tre anni nei quali sarebbe stato possibile licenziare.
Tra quelli che dovrebbero essere maggiormente beneficiati dalla riforma ci saranno i giovani, visto che dai dati in possesso del ministero oltre il 60% delle assunzioni che interessano persone sotto i 30 anni avviene con contratti atipici (sono ben 34 le forme). Il cambiamento quindi interesserà soprattutto loro che potrebbero così avere maggiori garanzie e sperare di uscire finalmente dal precariato continuo.
E a propositi di precari, visto che ormai sono di tutte le età, il ministro Fornero punterebbe (usiamo sempre il condizionale) a forme d’impiego e retribuzione sicure soprattutto per quella fascia che va fino ai 40 anni e che sarà interessata anche dalla riforma dei versamenti pensionistici, ormai dipendenti dai contributi versati. Quindi, più stipendi certi maggiore introito per le casse dello stato alla voce pensioni.
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