Gli studi effettuati dal Laboratorio Working Age, organizzato dalla Fondazione Sodalitas ed esposti nella giornata di oggi a Milano, dimostrano che il gap generazionale è un valido strumento di crescita per le aziende.
Parliamo dei cosìdetti Patriarchi, coloro che hanno tra i 66 e gli 89 anni, e la Y Generation, i nati negli anni ’80, persone strettamente legate alla nostalgica comunicazione epistolare cartacea affiancate alla new generation intrisa di tecnologia.
Ebbene la differenza tra le due generazioni non è solo quella dell’età, vi sono infatti tutta una serie di caratterizzanti come la diversa educazione, religione e abilità che sembrano vadano a creare un mix perfetto. Il futuro sembra proprio il mettere in relazione chi si affaccia nel mondo del lavoro con quanti ne fanno parte da tempo, creando così un forte spirito di appartenenza: sono otto le società, del tutto eterogenee tra loro, che hanno messo in pratica questo processo che oggi è messo a confronto nella presentazione dello studio.
Come detto le aziende sono differenti, si parla di Accenture, Ibm, Vodafone, L’Oréal, Randstad, Banca Popolare di Milano, Kraft Foods e Telecom . I vari rappresentanti hanno stilato una relazione dove spiegano i loro obbiettivi e come questi dovranno essere raggiunti.
I recenti studi dell’Ocse, prevedono che in Italia nel 2050 vi sarà un tasso di dipendenza economica pari al 130%, ovvero vi saranno 1,3 persone a carico per ogni lavoratore attivo, numeri che superano per più di 60 punti la media europea ed ancora più spaventosi se pensiamo che ad inizio secolo questo tasso ammontava al 100%. Risulta dunque essenziale introdurre i giovani, sempre più frequentemente reclutati (addirittura) attraverso i social networks, all’interno della realtà lavorativa in modo definitivo.
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